Premesso che le offese inaccettabili ed incredibili del Sen. Calderoli al ministro Cecile Kyenge nulla hanno a che fare con un serio dibattito sul cd “ius soli” o diritto di cittadinanza ai figli degli immigrati nati in Italia, credo che sia giusto un confronto pacato su questo argomento,liberandolo però da facili strumentalizzazioni o demagogie o sentimentalismi fuori luogo. Innanzitutto l’esperienza europea, vedi Gran Bretagna, Francia, Olanda e Svezia, dimostra che una cittadinanza concessa automaticamente senza alcuna verifica del livello di integrazione raggiunto produce più danni che vantaggi in quanto non basta essere “ufficialmente” cittadino di un determinato paese per sentirsi parte integrante dal punto di vista culturale e sociale del medesimo, essendo spesso relegati al ruolo di “cittadini di serie B”.
La scuola potrebbe, anzi dovrebbe, essere determinante nell’assicurare e trasmettere alle giovani generazioni di immigrati il senso di un’appartenenza culturale fatta di “valori sviluppati ed assorbiti nel corso dei secoli”,ma in Italia stante anche la presenza di una parte del corpo docente fortemente ideologizzato dai miti di una sinistra terzomondista, ciò avviene di rado, mentre accade spesso che il rispetto per le culture diverse dalle nostre venga scambiato con la denigrazione sitematica della tradizione culturale europea ed occidentale.
E’ peraltro un dato di fatto che in molte famiglie extracomunitarie (ancorate sentimentalmente ad usanze e riti del paese d’origine), sono disprezzati o comunque ignorati i valori fondamentali della nostra società,e molto spesso i giovani crescono in una sorta di “alienazione” o alterita’rispetto ai loro coetanei,dai quali per effetto dell’educazione ricevuta si sentono lontani, vivendo una condizione di “emarginazione forzata”. Ora il punto discriminante e fondamentale per un serio confronto finora mancato, sulla concessione della cittadinanza italiana che non escludo ,sia ben chiaro,ma ritengo debba essere subordinata a requisiti particolari,agli immigrati nati in Italia e’ a mio modo di vedere costituito da “tre condizioni”:
1) la valutazione che ognuno di noi da dell’importanza di preservare la tradizione culturale in senso lato del nostro paese che ne ha costituito l’identità essenziale;
2) la conseguente verifica al termine degli studi, almeno di scuola primaria di secondo grado, del livello di integrazione nel senso su accennato di questi giovani;
3) la possibilità del nostro sistema economico e sociale di assorbire in questo momento delicato di disoccupazione di massa, milioni di persone, sovente estranee per condizioni famigliari e motivazioni culturali (si pensi alla comunità islamica) alla vita del nostro paese.
Le condizioni delle “banlieu”parigine, o dei ghetti di Londra non ci dicono niente? E allora con buona pace della Presidente Boldrini ed anche di altri autorevoli esponenti istituzionali, perché non si ragiona partendo da dati di fatto e non da mere petizioni di principio? Finora ho sentito solo proclami, mai ragionamenti seri nell’interesse, fra l’altro, degli stessi giovani immigrati.